Mister Bianchini si racconta…
Nato a Thiene, in provincia di Vicenza, quasi 42 anni fa, Giuseppe Bianchini è approdato sulla panchina del Tamai il 21 novembre, accettando una sfida stimolante, ma allo stesso tempo non semplice: “Non me l’aspettavo di poter essere tra i candidati – racconta il tecnico ricordando il giorno della chiamata – A tutti gli effetti è una società abbastanza distante da casa e non conoscevo molte persone all’interno dell’ambiente. È stata una telefonata che mi ha inorgoglito, mi ha riempito di stimoli e ho dato immediatamente la mia disponibilità”.
Facendo un passo indietro e ricordando i suoi inizi calciatici, il tecnico ha disputato diversi anni anche a livello professionistico, portando con sè ricordi particolarmente graditi nelle esperienze al sud Italia: “Ho avuto la fortuna di confrontarmi con un calcio diverso, tifoserie e ambienti caldi, che porto sicuramente nel cuore. Devo dire che è molto più bello giocare al sud”. Appese le scarpette al chiodo, è iniziata la carriera da allenatore, una vocazione che sembrava chiara già in campo: “Negli ultimi anni sono sempre stato un giocatore al quale piaceva dare indicazioni ai compagni. Ero una sorta di radiolina in campo, quindi da lì il passaggio è stato abbastanza naturale”.
Adesso che è dall’altra parte, il confronto di ruoli è più facile. Quale è il compito più semplice, allenare o giocare?: “La pressione è sicuramente più alta da allenatore, quello è sicuro. Alla fine della fiera sei il responsabile per l’intero gruppo, è più stimolante ma al tempo stesso anche più difficile. Il giocatore può dimostrare giornalmente e alla domenica il suo valore. Deve sì rendere conto alla squadra, ma tanto dipende da come si allena. Per quanto riguarda il ruolo di tecnico invece, il lavoro che svolge è fondamentale ma non scende in campo alla partita. Quindi sicuramente incide, ma in maniera minore”.
Tornando alla scelta di Tamai e alla delicata situazione che ha trovato, Bianchini conferma i motivi che lo hanno spinto ad accettare: “Seppur non personalmente, la società la conoscevo per averci giocato contro diverse volte in carriera, oltre ad averne sempre sentito parlare molto bene. Sapevo di arrivare in un ambiente serio e strutturato. Molti giocatori li conoscevo già, ero e sono convinto ci siano tutte le componenti per fare bene. Sono del parere che attraverso il lavoro continuo possiamo uscire da questo momento poco felice”. Sono proprio il fattore umano, l’applicazione sul campo e la voglia di sacrificio, gli ingredienti che il tecnico vuole amalgamare nei suoi ragazzi: “In un gruppo conta la fame, al di là di qualsiasi dettame tecnico o tattico. Se manca quella è difficile andare lontani, è il fattore più importante che ogni singolo componente deve fare suo”. Soffermandosi invece proprio sugli aspetti tattici, il mister sottolinea di non avere un modulo preferito: “Non mi focalizzo su uno schema tattico, molto dipende dagli uomini che ho a disposizione. Ho utilizzato parecchio il 4-2-3-1 a Feltre e anche l’anno scorso a Sedico per gran parte del campionato, ma non è un dogma il mio”.
In chiusura, osservando la statistica avversa che vede le furie in difficoltà soprattutto in casa, il tecnico è d’accordo che sia giunta l’ora di invertire la tendenza: “Il pubblico gioisce quando la squadra va bene e siamo noi i primi ad essere contenti di farli esultare. L’unica cosa che posso assicurare é che la mia squadra al termine di ogni partita avrà dato tutto. È normale che vorremmo sempre fare risultato ma è importante anche come ci si arriva. Un po’ alla volta penso che anche il pubblico andrà ad apprezzare lo spirito messo in campo, dopo è chiaro che se si vince, tanto meglio”.
Fabrizio Sacilotto